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Title: RFC
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Date: 2018-01-07
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Tags:
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Slug: rfc
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Order: 03
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Richiesta di commenti LOST
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Status: Experimental
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APM, Calusca, Cox18
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gennaio 2018
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[PDF]({static}/pdfs/LOST_RFC_01.pdf)
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livello zero
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In uno spot di recente trasmesso in televisione si dice: “*Le nuove tecnologie ci danno la libertà di
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non dover scegliere, non è fantastico?*”. Questa frase cela una segreta intenzione. La sua formulazione
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esatta potrebbe essere: “*Se continuate così le nuove tecnologie vi toglieranno la libertà di scegliere
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e sarete fregati*”.
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Al tempo in cui la tecnologia, e le tecniche informatiche in particolare, sembrano dominare la sfera
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della produzione e quella del consumo con una intensità e una aggressività mai viste prima, sembra
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essere molto lacunosa la consapevolezza delle metodologie e delle finalità che l’uso degli strumenti
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comporta, in particolare quelli digitali, nonché delle caratteristiche intrinseche dei processi che sono
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vi coinvolti.
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Le perplessità, se mai ve ne sono, riguardano soprattutto l’utilizzo eccessivo o errato di una
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strumentazione che si suppone essere neutrale e al servizio dei naturali bisogni di donne e uomini
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del nuovo secolo.
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La domanda se vi sia un limite che divide l’uso dall’abuso dello strumento tecnologico lascia però
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inesplorate le interconnessioni che questo ha con gli assetti di potere esistenti e con le esigenze di
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messa a profitto che esprimono.
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Ancora più in sordina è il dibattito sulla scienza e sui suoi rapporti con la tecnica, nonché sulle
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trasformazioni che queste attraversano nel susseguirsi di crisi e ristrutturazioni del capitale.
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Luci e ombre dell’elaborazione teorica e dello sviluppo tecnologico alle soglie del terzo millennio.
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Interrogarsi su questi temi per noi significa in primo luogo promuovere momenti di discussione e di
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confronto collettivi, raccogliere contributi, esperienze e curiosità che sappiamo esistere benché
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spesso in forma inespressa. Contemporaneamente significa dar vita a pratiche di formazione e
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informazione suscettibili di irrobustire il nostro approccio agli strumenti e alle teorie che li
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accompagnano, alimentando la nostra inguaribile propensione a pensare a forme di organizzazione
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sociale realmente e radicalmente diverse.
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Proponiamo quindi una serie di incontri sotto il nome di LOST: le “Lunghe Ombre della Scienza e
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della Tecnica”. Questi incontri si rivolgeranno a un pubblico vario, non necessariamente fatto di
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esperti (anzi!), e mirano sia a fornire una basica contro-informazione unita a un primo gradino di
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formazione sia ad aprire uno spazio di confronto e discussione.
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Si tratta di riappropriarsi delle conoscenze e della capacità di criticarle, obiettivo molto ambizioso
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che, nel nostro modo di vedere, può darsi solo nella rottura degli steccati che separano gli esperti
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dai profani, i costruttori dagli utilizzatori, guardando ad un mondo che non contempli la differenza
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dei *dotti* dai *villici*.
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Apriamo le danze proponendo un testo, un “cappello” introduttivo, lo presentiamo sotto forma di
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“Richiesta di commenti”[ref] Una “Richiesta di commenti” (RFC) è un tipo di pubblicazione della Internet Engineering Task Force (IETF) e della
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Internet Society (ISOC), i principali enti di sviluppo tecnico e di definizione degli standard per Internet.
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Una appare sotto forma di un memorandum che descrive metodi, comportamenti, ricerche o innovazioni applicabili al
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funzionamento di Internet e dei sistemi connessi a Internet. Viene pubblicata per permettere una revisione pubblica, una
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raccolta di commenti e integrazioni, suggerimenti..
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La prima RFC è stata composta da Steve Crocker nel 1969 per stilare delle note non ufficiali sullo sviluppo di
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ARPANET: “We had accumulated a few notes on the design of DEL and other matters, and we decided to put them
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together in a set of notes. I remember having great fear that we would offend whomever the official protocol designers
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were, and I spent a sleepless night composing humble words for our notes. The basic ground rules were that anyone
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could say anything and that nothing was official. And to emphasize the point, I labeled the notes “Request for
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Comments.” I never dreamed these notes would distributed through the very medium we were discussing in these notes.
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Talk about Sorcerer's Apprentice!” [https://tools.ietf.org/html/rfc1000] (https://tools.ietf.org/html/rfc1000)[/ref] sulla falsariga di quanto avvenne nei primi anni Settanta quando l’Internet
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stava preparandosi a nascere. È un testo breve, gnucco e senz’altro incompleto, che serve a noi a
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fissare dei paletti iniziali. In esso si enucleano quattro aree tematiche principali che pur essendo
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fortemente in relazione l’una con l’altra si prestano ad una trattazione specifica:
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* Scienza,
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+ Tecnica,
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+ Tecniche digitali,
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+ Trasmissione del sapere.
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Il ciclo di incontri sarà anche un modo per migliorare e approfondire, attraverso arricchimenti,
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elaborazioni ulteriori e trasformazioni, il contenuto di questo embrionale testo.
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Per far ciò abbiamo bisogno di molti aiuti perché, come tutti i percorsi di conoscenza, anche questo
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deve potersi arricchire durante il suo procedere e nessuno di noi sente di avere una verità o una
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ragione che non si dia nella relazione con una collettività più ampia.
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Proponiamo quindi a quanti più siano interessati di attivarsi attorno al progetto con lo scopo di
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approfondire e socializzare le conoscenze.
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Premessa
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Il terzo millennio ha visto la luce passando attraverso una catastrofe tecnologica che potrebbe
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risultare oggi più istruttiva di quanto non sia risultata, allora, distruttiva.
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Si diceva, al tempo, che il software, l’algoritmo (già allora, di fatto, c’era l’*algoritmo*), abituato
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com’era all’immanenza, non avrebbe tollerato il passaggio dal 1999 (per brevità detto 99) al 2000
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(ossia 00) e avrebbe allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999 immancabilmente
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confuso il prima con il dopo, portando i sistemi da lui controllati a imprevedibili conseguenze; o,
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ancor peggio, poiché la rappresentazione della data nell’anno 2000 avrebbe richiesto un numero di
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byte superiore a quello disponibile, l’automa, invadendo aree di memoria ad altro dedicate, avrebbe
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perso completamente il senno. Alla catastrofe annunciata vennero dati, come è costume, degli
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ammiccanti nomignoli: *Y2K* o *Millennium Bug*:
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«The Y2K problem is the electronic equivalent of the El Niño and there will be nasty surprises
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around the globe» (John Hamre, *United States Deputy Secretary of Defense*).
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Le società di classe amano le simmetrie più di quanto non faccia la natura, privilegiano le cifre
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tonde, cercano degli appigli trascendenti nell’universo inconosciuto, così l’avvento dell’anno 2000
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fu funestato dall’incombere del Millennium Bug.
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Di fatto, poi, in quella critica notte non accadde praticamente nulla. Le centrali elettriche non
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andarono in tilt, gli acquedotti continuarono a funzionare, così le borse finanziarie, gli ospedali e
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persino le formule di excel non ebbero incertezze il primo gennaio del 2000. Coloro i quali avevano
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fatto scorta di scatolette e di candele, o addirittura si erano rinchiusi in bunker super protetti da
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armamenti e scorte d’acqua, si risvegliarono come ogni giorno, con un pugno di mosche in mano e
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un po’ di cose in più da smaltire. Se qualche problema vi era stato, e così era, era stato affrontato e
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risolto negli anni precedenti a dispetto dell’enfasi che accompagnò il cambio di millennio.
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Gli anni duemila, già figli di una gonfiata emergenza tecnologica, crebbero poi all’insegna del
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*dilemma digitale*.
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Mentre alcuni (pochi) colossi dell’informatica mostravano una crescente ambizione di prendere il
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posto del negozietto sotto casa, mentre l’“Internet delle cose” pretendeva di dotare di intelligenza,
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seppure artificiale, gli elettrodomestici, mentre ci si chiedeva che fine avrebbe fatto una generazione
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(dall’evocativo nome di *millennial*) cresciuta tenendo costantemente una mano occupata con un
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telefono che telefona sempre meno, mentre tutto ciò accadeva sotto i nostri occhi è sorto il dubbio
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se questa rivoluzione – ché di altro non si può parlare – sarebbe stata foriera di novità positive o
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negative.
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Il mito del progresso, con l’aiuto della mass-comunicazione, aveva nel frattempo cancellato
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l’implicito portato di autonomia (a discapito delle sue origini militari) contenuto nel protocollo
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TCP/IP e le prime esperienze di comunicazione digitale, la nascita del software libero, la battaglia ai
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copyright che portò allo sviluppo di un sistema operativo, Linux, frutto di una cooperazione non
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mercificata e antagonista nei fatti al sistema di royalties sul software che ha fatto di Bill Gates uno
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degli uomini più ricchi del mondo.
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L’impatto sul senso comune delle trasformazioni indotte dalla miniaturizzazione dei processori e
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dall’aumentata potenza di calcolo messa a disposizione a prezzi relativamente bassi si è dimostrato
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di singolare efficacia. Nel giro di pochi anni il panorama delle comunicazioni è mutato
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radicalmente. È venuto quindi del tutto naturale pensare di trovarsi in un momento di svolta epocale
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nella storia dell’umanità.
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Una situazione simile fu vissuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, l’uscita
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dall’Orda d’Oro, con quella che allora fu definita la “rivoluzione microelettronica”.
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Anche a quei tempi un contesto di crisi economica si accompagnò a grossi mutamenti che
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investirono non esclusivamente i luoghi della produzione [con l’ingresso massiccio
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dell’automazione industriale e una conseguente espulsione della forza-lavoro] ma anche
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l’esperienza della vita quotidiana e del privato (col relativo immaginario, allora si chiamava così),
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rendendo accessibili (anche in virtù di un forte abbassamento dei prezzi delle componenti
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elettroniche e la conseguente creazione di un mercato di massa) strumenti tecnologici prima
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riservati alle istituzioni e alle grandi imprese. In particolare, nascevano i Personal Computer.
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La concomitanza di questi eventi con difficoltà e squilibri che preannunciavano la più grave crisi
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economica del secondo dopoguerra e con una fase di profonda ristrutturazione del ciclo produttivo a
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livello planetario, unita a una grave e duratura empasse delle pratiche di lotta che avevano segnato il
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decennio precedente, portò a identificare nello strumento tecnologico una, se non la, causa dei
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mutamenti socio-economici in atto generando uno spettro di interpretazioni che andavano dalle più
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cupe [la tecnologia avrebbe portato via il lavoro, producendo disoccupazione e sofferenza diffusa]
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alle più ottimiste [la rottura della rigidità fordista, permessa dall’introduzione delle nuove
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tecnologie, avrebbe di fatto liberato l’operaio di linea dallo sfruttamento e determinato condizioni
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oggettive suscettibili di portare al comunismo senza passare per la presa del Palazzo d’inverno].
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Non mancarono però, anche allora, lettori più attenti e smaliziati che non si limitarono a guardare la
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superficie del mare e le sue increspature ma cercarono di analizzare quanto avveniva nel ciclo
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produzione-distribuzione-consumo, visto nel suo insieme e nella sua interezza, in conseguenza
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dell’avvento di queste “nuove” tecnologie.
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Vogliamo qui limitarci a citare, per il caso italiano, una pagina di *Lavoro e intelligenza nell’età
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microelettronica* di Paola Manacorda, apparso per Feltrinelli nel 1984.
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«Queste contraddizioni non sembrano quindi espressive di una tendenza lineare e uniforme che
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avanzi spazzando via tutti i vecchi concetti e contenuto del lavoro, della vita quotidiana, della
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cultura, dei rapporti sociali. Molte cose cambiano ma altre rimangono inalterate, o addirittura
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assumono caratteri che sembrano contro-intuitivi rispetto alla supposta tendenza vincente.
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Capire queste contraddizioni, queste apparenti incongruenze della società microeletttronica non è
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davvero facile. Occorre entrare nel merito dei singoli processi che costituiscono le specifiche
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applicazioni e cercare di capire i meccanismi che li governano. Questo è reso molto difficile dalla
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diffusa strategia di socializzazione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, che si limita a
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portare a conoscenza del grande pubblico un “oggetto”, risultato di complesse scelte di innovazione
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e ricerca scientifica; che attribuisce a questo “oggetto” delle proprietà intrinseche che lo
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renderebbero a volta a volta liberatorio o oppressivo, senza analizzare i complicati processi di
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mediazione, integrazione, progettazione organizzativa e rapporti sociali che rendono quell’oggetto
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realmente fruibile. In definitiva una strategia di informazione che alimenta più l’immaginazione che
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la riflessione e che pertanto produce più “immaginario tecnologico” che conoscenza scientifica del
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significato e del ruolo dell’innovazione tecnologica.
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Questa scarsità di strumenti di analisi si traduce quindi in una difficoltà di elaborare strategie – o
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almeno comportamenti coerenti e finalizzati nel breve periodo – a fronte della innovazione
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tecnologica e dei reali problemi che essa fa nascere. [...]
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Molto spesso – e al livello del grande pubblico e della divulgazione scientifico-tecnica di massa
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questa è la regola – l’unica posizione valutativa è quella del “dipende da...”. La tecnologia in sé
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non è né liberatoria né oppressiva, dipende da chi la usa e da come la usa. Affermazione che sembra
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difficile da contestare sul piano dei principi, tant’è vero che chi si azzarda a metterla in discussione
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viene regolarmente accusato di pensare che il microprocessore abbia un’anima, una volontà di
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oppressione. Difficile anche perché occorrono tempo e argomenti per dimostrare che l’esito
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dell’introduzione dell’innovazione tecnologica dipende non tanto da *chi la usa*, quanto da chi la
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produce, da come essa viene prodotta, e per chi; da come viene scelta, inserita in un contesto,
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finalizzata a precisi obiettivi. Tanto che alla fine di questa analisi si può vedere che proprio chi usa
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la microelettronica, sia esso l’operaio del sistema Digitron, la dattilografa dell’ufficio o la famiglia
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davanti al televisore, è meno di tutti gli altri in condizioni di scegliere *come usarla e per che cosa*»
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(cit., pp. 16-17).
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<center>** - **</center>
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Le condizioni della rivoluzione elettronica del terzo millennio sono diverse. Ormai abituati alla
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presenza dell’automazione nei processi lavorativi e in molti strumenti di svago, sostanzialmente
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dimentichi dell’esperienza dello sviluppo cooperativo del codice e della “free-ness”, che non è
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necessariamente gratuità del software, si assiste da un lato alla penetrazione del digitale
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potenzialmente in ogni singolo momento (di lavoro o di ozio) delle nostre vite; in aggiunta il
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carattere strettamente individuale dello strumento fa da schermo alle nostre percezioni sensorie e
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relazionali; contemporaneamente la corsa alla concentrazione delle infrastrutture tecnologiche
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mondiali (che va di pari con la concentrazione dei capitali e della finanza) vede un pugno di aziende
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private[ref]Eccezion fatta per la Cina, che costituisce un caso a sé su cui torneremo tra poco.[/ref]
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(che si contano letteralmente sulle dita di una mano) tendere ad accaparrarsi la gestione
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dell’intera rete connettiva del Pianeta, del suo scheletro tecnologico, storage dei dati e
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interconnessioni incluse.
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Un effetto marginale ma non trascurabile di questo corso di eventi è che pare mutata persino la
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percezione della verità. La grande rete è così al di sopra di ciascuno da divenire essa stessa
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paradigma di verità e, nella crisi di valori e ideologie del secolo andato, l’algoritmo informatico ne è
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la bocca parlante, *oraculum veritatis* d’una società incapace di pensarsi in relazione a se stessa e al
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suo ambiente naturale.
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Così oggi gioie e dolori del vivere cercano risposta e prospettive per il futuro nell’avvento del
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digitale, che da un lato ci schiavizza e ci ottunde mentre dall’altro libera nuova potenzialità
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cancellando distanze e frontiere. O almeno promette di farlo.
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Noi preferiremmo fermarci un attimo, sottrarci al flusso e cercare di riprendere un’attività di
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comprensione un po’ più dentro le cose. Vorremmo innanzitutto capire che fine ha fatto la scienza
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“come noi l’abbiamo conosciuta”, come recitava il titolo d’una bella raccolta d’autobiografie di
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donne proletarie inglesi di una quarantina d’anni fa, ovvero quella pratica che per almeno quattro
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secoli ha coltivato l’ambizione di descrivere (e dominare) il mondo materiale. Una forma di
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conoscenza che aveva provato a dotarsi di alcuni strumenti atti a garantire l’obiettività delle sue
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affermazioni, e le cui certezze sono state minate nell’intimo tanto dalle devastanti (in tutti i sensi)
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scoperte sulla struttura fine della materia quanto dalle ripetute dimostrazioni di inadeguatezza dello
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strumento logico e gneoseologico. «Three quarks for Muster Mark!», e l’*Ulisse* di Joyce dà il nome
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alla scienza più avanzata e acciaccata. Era solo il 1963. E che ne è della “scienza” dal momento in
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cui è investita da quegli enormi flussi di interessi economici e politici-militari che producono la Big
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Science?
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Oggi che Monsanto paga gli istituti di ricerca affinché dimostrino la non tossicità dei suoi prodotti,
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oggi che l’apparato militare occupa, con tutto il suo contorno di segretezza, i settori di punta della
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ricerca praticamente in qualsiasi settore, oggi che alcune branche della ricerca richiedono
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investimenti così colossali da far ammutolire qualsiasi possibile domanda od obiezione, oggi che la
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messa a profitto dell’invenzione (o la messa a brevetto della scoperta) è il suo principale se non
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unico scopo, di che scienza possiamo parlare?
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Cos’è divenuta la medicina, la cura dei corpi malati, nella sua commistione con un apparato
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produttivo il cui unico scopo è quello di mettere a valore la reale o potenziale sofferenza, che grado
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di obiettività e rispetto del dubbio può offrire?
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In una scuola con un orizzonte di conoscenze parcellizzate e intercambiabili, che sembra oggi voler
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mettere al primo posto il valore dell’obbedienza, per educare donne e uomini compatibili con un
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mondo che ha paura dell’autonomia delle sue componenti, quale tipo di trasmissione di saperi si
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può avere?
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I grandi “store” on-line, e tutti i dati che è necessario manipolare per indurre una pletora di acquisti
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non desiderati, non si ripagano forse con quel plus-valore inglobato nella merce che Marx aveva
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analizzato e “smontato” già nel diciannovesimo secolo? E la finora silente (ma non ferma) Cina che
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tende ad assumere il ruolo di produttore mondiale di una quota cospicua di queste merci quale posto
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occupa in questo scenario?
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Negli anni Settanta gli operai della Montedison di Castellanza insieme con i medici e tecnici di
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Medicina Democratica condussero una minuziosa opera di ricostruzione del ciclo produttivo per
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identificarne con precisione le tossicità. Prendendo spunto da questa loro attività di conoscenza, noi
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“operai” del terzo millennio vorremmo provare a ricostruire il ciclo di produzione del sapere, che ci
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aggredisce, per meglio difenderci, per meglio contrattaccare, per imparare a far meglio e
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diversamente.
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Scienza
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{% img center half http:/images/tre-1-226x300.png %}
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È fuori delle nostre ambizioni (e capacità!) dare una definizione sistematica di Scienza;
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raccoglieremo, se ve ne saranno, una serie di contributi per cercare di dare un quadro di quella che
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oggi, in una visione anticapitalistica, può e deve essere definita tale. Ci sembra però di poter
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indicare alcuni principi generali e qualche domanda come guida del ragionamento.
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La scienza fa riferimento a una cosa a lei estranea, che potremmo chiamare *materia*, alla quale cerca
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di applicare regole e categorie che la possano descrivere o che possano servire a manipolarla. Tale
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materia può essere sia naturale che sociale.
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La scienza è fatta da umani, quindi risente delle contraddizioni sociali e ne è espressione. Una
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società di classe inevitabilmente produrrà una scienza di classe. Una società autoritaria tende a
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produrre una scienza dogmatica, un oggetto di culto che può diventare superstizione in assenza di
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validi argomenti. È un sapere che mira più a fornire certezze che a dar voce ai dubbi.
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Cosa possiamo farcene oggi di una scienza e cosa vorremmo farcene domani è una delle domande
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che ci poniamo.
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Nel ventesimo secolo è esistita una grande fiducia negli strumenti logici e deduttivi e nella
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possibilità di elaborare una risposta al mistero della materia che non fosse autoritaria, dogmatica,
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trascendente. La fine del secolo breve ha imposto la necessità di ripensare i fondamenti della logica
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e ha dato per certa l’impossibilità di conoscere appieno la materia naturale. Che cosa è accaduto
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nell’ambito delle scienze sociali? E che cosa ne è stato di quella teoria della rivoluzione che, agli
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occhi di molti, dalla sua “scientificità” ricavava un grado di certezza e di assertività pari, se non
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addirittura superiore, a quello delle scienze naturali?
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In una fase di aperto e sfacciato predominio delle grandi concentrazioni di mezzi, capitali e tecniche
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di governo, con i loro imperativi e i loro tempi, sempre più accelerati, che ne è del percorso della
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conoscenza, con tutti i suoi dubbi e i suoi arresti, e della scienza, con le sue crisi di paradigma, le
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sue false piste, i suoi ricorsi?
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<center>** - **</center>
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Infine, facendo un salto indietro nel tempo, pensiamo di giocare con un bambino a “è una
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scoperta o un’invenzione”.
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Si sceglie una parola e si dice se si tratta di scoperta o invenzione.
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Il sole, una scoperta, il tavolo, un’invenzione; il vento, una scoperta, la vela un’invenzione. Il
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sorriso, una scoperta, no un’invenzione. È difficile, senz’altro è un’occasione per discutere.
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Prendiamo ora per esempio questa sequenza:
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![locandina]({static}/images/giphy.webp)
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e questa immagine:
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![locandina]({static}/images/pitainvenzione.gif)
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</center>
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La prima è una scoperta, la seconda è un’invenzione, nota sotto il nome di *teorema di Pitagora*.
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Sono la stessa cosa?
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Questa domanda è in parte la scienza di cui ci vorremmo occupare, una conoscenza che si
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approssima alla realtà materiale.
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Diamo per scontato che ci sia qualcosa da scoprire e che ancora non ne siamo del tutto capaci, ma
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abbiamo delle ipotesi che riteniamo credibili. Non sono le uniche, le nostre. Sarebbe meglio che lo
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fossero? Non ne siamo certi, forse non siamo nella condizione di discuterne. Nel campo della
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conoscenza siamo in guerra, da tempo ma forse mai come ora. Anche capire chi sia questo “noi” è
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difficile.
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Nell’elaborare un’ipotesi scientifica ci si può permettere di utilizzare le esperienze sociali, le
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precedenti teorie, quegli strumenti logici che non cozzano con il buon senso, non molto di più. Le
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teorie saranno messe a confronto con la materia che descrivono e in discussione dalle collettività
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che le producono. Tante più e tanto più diverse verifiche saranno fatte quanto più si potrà dire che le
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tesi sono valide. Per questo un presupposto fondamentale intrinsecamente legato alla scienza è che
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questa non sia tenuta nascosta e che non siano negate le informazioni necessarie per effettuare tali
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verifiche. Non si dice niente di nuovo né di rivoluzionario, questo è Galileo, che però si rimangiò le
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||
parole per aver salva la vita, ma questa è un’altra questione. O forse no?
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<center>{% img center http:/images/uno-300x211.png %} </center>
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Tecnica
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Dal greco *techne* = arte, che rimanda a una radice indoeuropea, *tek* = tessere.
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Tirare una riga netta tra scienza e tecnica è impossibile, probabilmente nessun confine ha mai una
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netta ragion d’essere; è però utile in questo caso cercare di capire le differenze, reali o artificiose
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che siano.
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Se definiamo la *tecnica* in relazione all’uso di strumenti nell’*interazione* con la materia possiamo
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provare a definire la scienza come una sua astrazione avente lo scopo di *descrivere* la materia.
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Dalla tecnica della navigazione nasce, per codifica, astrazione e formalizzazione, la scienza
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astronomica. In una certa misura la tecnica è più d’azione e la scienza più di contemplazione.
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La commistione però è enorme e il tributo, non riconosciuto, che la Scienza (con la maiuscola) deve
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alla tecnica lo è altrettanto. Prendiamo due esempi tratti da *Storia popolare della scienza. Minatori,
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levatrici e “gente meccanica”* di Clifford Conner, un libro apparso in italiano presso Marco Tropea
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Editore nel 2008.
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“Le peculiari innovazioni che trasformarono la macchina a vapore in un’efficiente fonte di energia
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in grado di far funzionare i macchinari più diversi si debbono al lavoro di un modesto artigiano
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dotato di mezzi limitati e di una scarsa istruzione, James Watt. Watt era un fabbricatore di utensili la
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cui bottega era situata nelle vicinanze dell’Università di Glasgow e fu proprio un professore di
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questa università a chiedergli di riparare un modello di una delle macchine di Newcomen,
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stimolando in lui il desiderio di migliorarne il progetto. L’artigiano stabilì che l’inefficienza era
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dovuta alla massiccia perdita di calore che si verificava nel momento in cui il vapore si condensava
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nel cilindro. La sua soluzione consistette nell’aggiunta di un vaso separato in cui il vapore avrebbe
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potuto condensarsi con l’ausilio dell’acqua fredda senza però provocare il drastico abbassamento di
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temperatura del cilindro principale.
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Benché Watt fosse un artigiano l’ambiente accademico che lo circondava ebbe un’indubbia
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influenza su di lui, sebbene la portata di tale influenza sia stata spesso ingigantita. Watt era in
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rapporti cordiali con Joseph Black, che all’epoca insegnava chimica all’Università di Glasgow. La
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versione più nota vuole che la teoria del calore latente elaborata dal dottor Black abbia fornito a
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Watt la chiave teorica per comprendere i limiti della macchina di Newcomen. Ma, come
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puntualizzano McClellan e Dorn, la pretesa ‘che Watt avesse applicato la teoria del calore latente di
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Joseph Black per giungere all’idea del condensatore separato’ è stata ‘smentita dalla ricerca storica’.
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Inoltre, ‘non si poté nemmeno cominciare a studiare scientificamente’ i sostanziali miglioramenti
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meccanici apportati da Watt ‘finché la sintesi della cinematica non sviluppò le appropriate tecniche
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analitiche, nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo’. La carriera di Watt diventa pertanto
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l’emblema del tipo di relazione che a quel tempo esisteva tra teoria e pratica: l’idea che la
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‘termodinamica deve alla macchina a vapore molto di più di quanto la macchina a vapore dovette
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mai alla termodinamica’ è diventato luogo comune.
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Il ferro e il vapore furono al centro della Rivoluzione industriale, ma non ne esauriscono le novità.
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Così come i meccanici e gli operai metallurgici non furono gli unici artigiani del tempo ad
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accrescere le conoscenze sulla natura. Abbiamo già citato i birrai in relazione alla scoperta del coke
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come combustibile alternativo. Non si può dimenticare che fu ‘l’esperienza dei processi di bollitura
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e condensazione dei liquidi su vasta scala, accumulata nella cantina di distillazione e nella salina’
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all’origine di una scienza quantitativa del calore. La teoria del calore latente di Joseph Black
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10derivava dal tentativo di spiegare talune nozioni comunemente note ai distillatori: che è necessario
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più calore per far evaporare completamente l’acqua di quanto ne sia necessario per portarla al punto
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di ebollizione e che il calore assorbito durante la fase di bollitura ricompare durante il processo di
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condensazione del vapore” (pp. 401-402).
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Possiamo dire che la tecnica è una scoperta e la scienza è un’invenzione?
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<center>{% img center http:/images/cinque-285x300.png %} </center>
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Tecniche digitali
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**3.1 Concentrazione**
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Il sistema socioeconomico attuale, che vede il prevalere assoluto delle grandi concentrazioni di
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capitale, tende a riprodurre nuclei di dimensione sovranazionale anche nell’ambito delle produzioni
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di beni materiali e immateriali, e della loro distribuzione.
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Di fatto, il capitalismo borghese è stato soppiantato da un capitalismo di stampo marcatamente
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imperialista ove sopravvivono poche grossissime concentrazioni di capitali e di potere del tutto
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sovranazionali. Un sistema di questo tipo vive della capacità di concentrare mezzi e risorse.
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Nell’ambito del digitale questa tendenza si manifesta nella lotta tra i colossi dell’IT: Google,
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Amazon, Microsoft, Ibm (+ AliBaba) per accaparrarsi la gestione della più grossa fetta di dati
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utilizzata dagli utenti del Pianeta, siano essi privati o imprese.
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La concentrazione è essa stessa una guerra (il capitalismo in crisi è in continua guerra). È una
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guerra feroce, i cui investimenti necessari probabilmente non si ripagano (ancora). Se è vero che
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abbiamo di fronte un nemico sarebbe sbagliato pensare che questo sia al suo interno coeso e
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pacificato. Pur quell’1% vive sotto le regole della concorrenza e della conflittualità intercapitalistica
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ove la legge della sopravvivenza scivola nella sopraffazione.
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Come tutte le guerre, però, anche questa semina vittime civili e innocenti, di certo innumerevoli
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anonimi addetti alla produzione del “ferro” ma anche in termini di perdita della capacità di reazione,
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di autonomia, di lucidità, di subalternità al dominio.
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Proviamo a fare una sommaria lista di cosa si fa, o si minaccia di poter fare, grazie alla grande
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raccolta di dati digitali (altrimenti detta BigData):
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- controllo statistico conoscitivo: seguendo trend semantici si monitora l’insorgenza di casi di
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interesse, eventi, malattie, rivolte. L’ambizione è quella di costruire strumenti previsionali di
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fenomeni di massa,
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- controllo puntuale conoscitivo: una volta definito un soggetto target è possibile ricostruirne
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spostamenti, gusti, abitudini, usi e costumi. Per ora non si va molto indietro nel tempo ma a mano a
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mano le informazioni si accumuleranno. Con qualche artificio è possibile effettuare questo controllo
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in tempo reale,
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- determinazione statistica (statistica predittiva): con la profilazione si può pensare di proiettare a
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ciascuno il mondo che più gli interessa o che gli è più affine. Lo fanno i motori di ricerca, lo fa l’e-
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commerce, quando lo faranno i quotidiani potremo dire che ciascuno vivrà in un mondo del tutto
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suo, il suo mondo preferito. La notizia più importante del giornale è quella che non leggo o che non
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mi piace,
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- determinazione predittiva: nella misura in cui il digitale assume valore assoluto di verità, se in
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modo autoritario si censurano informazioni, persone, notizie, dati, temporaneamente o
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definitivamente, si possono produrre censure o false verità difficili da svelare.
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<center>{% img center http:/images/Screenshot_20180121-092150-169x300.png %} </center>
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**3.2 Pervasività**
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Per ovviare alla scarsa capienza delle prigioni senza voler venir meno al controllo e alla punizione
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nel febbraio 2001 veniva emanato il Decreto Ministeriale 2/2/2001 che contiene le “*modalità di
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installazione ed uso e descrizione dei tipi e delle caratteristiche del mezzi elettronici destinati al
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controllo delle persone...*”. Si introduceva così nell’amministrazione della giustizia l’uso del
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braccialetto elettronico. Avrebbe permesso di seguire le mosse del reo, di controllare che non si
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allontanasse dai percorsi concordati e di prevenire altri reati.
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Oggi, a distanza di soli sedici anni, siamo tutti dotati di almeno un simulacro di braccialetto
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elettronico che, tanto volontariamente quanto inconsapevolmente, ci portiamo dietro. La capacità di
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resistenza è pressoché nulla, la conoscenza dello strumento pure. L’arte di indirizzare le scelte e di
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anticipare ogni desiderio, insita in questi oggetti, si sostituisce ai sistemi di controllo lasciando
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ancor meno spazio mentale all’elaborazione di teorie e pratiche materiali di lotta.
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Strumenti “sociali” come FaceBook, Google e Whatsapp detengono una mappa delle relazioni, dei
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gusti e degli eventi capace di aggiornarsi continuamente tale da far impallidire gli artefici del
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controllo sociale delle società autoritarie del secolo scorso.
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In un regime di seppur ristretta concorrenza e agendo direttamente sulle percezioni, questa nuova
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branca del mercato è, come sempre ma con tempi che scorrono velocissimi, in cerca costante di
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nuove frontiere ed emozioni che possano convincerci a continuare a offrire la nostra manodopera
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volontaria e spesso non retribuita ma anche a pagare denaro sonante per mantenere l’infrastruttura
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di servizi altrimenti detti “gratuiti”. Le nuove frontiere del dominio corrono con la velocità che il
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mercato e la costante ricerca di profitti impongono.
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È vero però anche che prende corpo, tra i più giovani soprattutto, un substrato comunicativo e
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creativo difficilmente immaginabile in un sistema verticale e che permette ad esempio al genio
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sedicenne di [“tha Supreme”](https://open.spotify.com/artist/19i93sA0D7yS9dYoVNBqAA) di
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crearsi un nutrito giro di fans in barba alle major discografico-musicali che ancora si affannano
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dietro ai contest in stile X-Factor.
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<center>
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{% img center http:/images/6ich-300x187.png %}
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</center>
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Benché quindi sia indiscutibile che l’infrastruttura tecnologica del digitale è studiata e programmata
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in modo da risultare funzionale a un sistema di mercato fortemente centralizzato, non ci paiono
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chiarissime al momento né la qualità né la potenza dei messaggi veicolati né la possibile
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obsolescenza degli strumenti legata alla necessità di esplorare sempre nuovi terreni di
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mercificazione.
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<center>{% img center http:/images/Screenshot_20180121-085037-169x300.png %}</center>
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**3.3 L’algoritmo di Dio**
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Oggi si sente molto parlare d’algoritmo. È un’entità molto autorevole, trova le cose che cerchiamo
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in rete, assegna gli insegnanti in scuole lontane da dove abitano, alza l’età pensionabile, aiuta i
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tribunali stabilendo cose fino a ieri impensabili come “chi ha scritto un testo” o “di chi è la voce in
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una registrazione”. È potente ma, soprattutto, è indiscutibile. Se lo dice l’algoritmo è Vero, come la
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parola di Dio.
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In realtà è almeno dal Neolitico che uomini e donne si arrabattono con algoritmi e procedimenti vari
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per studiare le stagioni, dividere i campi e scambiare il raccolto. Il fatto è che oggi
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l’imperscrutabilità dei dati di partenza e la diffusa ignoranza sulle tecniche di analisi fanno pensare
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che il giudizio della formula sia insindacabile.
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Oggi l’algoritmo vuole trasferirsi negli oggetti della quotidianità comune (come il Genio nella
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lampada di Aladino), e darà probabilmente vita a merci lontanissime, sul piano materiale,
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13dall’utilizzatore. Merci che si potranno sempre meno riparare e con cui uomini e donne saranno
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sempre meno confidenti. Ciò genererà profitti, almeno in via temporanea, per chi tali algoritmi
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produce e vende, ma si tratterà anche di strumenti contemporaneamente capaci di studiare il nostro
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ambiente e le nostre abitudini più di chiunque altro.
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La sfida, da parte di chi tiene le fila di questi processi, starà nell’intelligenza (seppure artificiale)
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che verrà impiegata nel trattare questi dati. Sarà possibile analizzare ammassi di dati
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apparentemente disarticolati e non strutturati come oggi si fa con le forme e i rumori? Quale genere
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di interconnessioni potrà emergere, nel caso, da un processo di questo tipo?
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<center>{% img center http:/images/minecraft-open-computers-mod-300x169.jpg %}</center>
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**3.4 Domanda a margine ma non marginale**
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A fianco di tutto ciò è indispensabile porre una domanda poco tecnica ma molto concreta: fino a
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quando l’operaio schiavizzato cinese, indiano, coreano, forza-lavoro mondiale al servizio del
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capitale multinazionale, vorrà tollerare di farcire del valore spremuto dalla sua fatica gli Ipad, i
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cellulari, i microprocessori da lavatrice ma anche le turbine degli aerei da guerra e i missili
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intercontinentali? Fino a quando la sua subalternità potrà garantire livelli di distribuzione della
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merce pari a quelli attuali? Fino a quando i costi di smaltimento e bonifica dell’inquinamento
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prodotto da questo vorace consumo riusciranno a essere tenuti fuori dal computo globale dei
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costi/benefici dell’investimento di capitale? E, dopo, che cosa accadrà?
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<center>
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| 我就那样站着入睡 | Mi addormento, proprio così, in piedi |
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| 我就那样站着入睡 | La carta davanti ai miei occhi ingiallisce |
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| 眼前的纸张微微发黄 | Con un pennino d’acciaio la incido di un nero |
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| 我用钢笔在上面凿下深浅不一的黑 | irregolare |
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| 里面盛满打工的词汇 | piena di parole come officina, catena di |
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| 车间,流水线,机台,上岗证,加班,薪水 |montaggio, |
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|...... | macchina, libretto di lavoro, straordinari |
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| | salari ... |
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| | |Mi hanno addestrato a essere docile |
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| 我被它们治得服服贴贴 |Non so come gridare o ribellarmi |
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| 我不会呐喊,不会反抗 |Come lamentarmi o denunciare |
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| 不会控诉,不会埋怨 | |
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| 只默默地承受着疲惫 |So solo sfinirmi in silenzio |
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| 驻足时光之初 | |
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| 我只盼望每月十号那张灰色的薪资单 |Quando ho messo piede la prima volta |
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| 赐我以迟到的安慰 |in questo posto |
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| 为此我必须磨去棱角,磨去语言 |speravo solo che la grigia busta paga, |
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| 拒绝旷工,拒绝病假,拒绝事假 |il dieci d’ogni mese, |
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| 拒绝迟到,拒绝早退 |potesse donarmi un po’ di conforto |
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| 流水线旁我站立如铁,双手如飞 | |
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| 多少白天,多少黑夜 |Per questo ho dovuto smussare gli angoli |
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| | e le mie parole |
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| | |
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| | Rifiutare di saltare il lavoro, |
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| | Rifiutare le assenze per malattia, |
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| | Rifiutare il permesso per questioni private |
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| | Rifiutare di arrivare in ritardo, |
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| | Rifiutare di andar via prima |
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| | |
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| | Alla catena di montaggio rigido come il ferro, |
|
||
| | le mani che volano |
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| | Quanti giorni e quante notti |
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| | È proprio così che mi sono addormentato in |
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| | piedi? |
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| | |
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| | |
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| | *20 agosto 2011* |
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| | *Xu Lizhi, operaio della Foxconn* |
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</center>
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<center>{% img center http:/images/MALAMILANOTempoDelLavoroL.gif %}</center>
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Trasmissione del sapere
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In quali luoghi si fa scienza? Dove e quando si sviluppano le ‘tecniche’? Come si tramanda
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l’esperienza in modo che possa essere costantemente rielaborata, affinata e messa a confronto-
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||
scontro?
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||
L’istituzione ufficialmente delegata a compiere gran parte di questa funzione è la scuola. In maniera
|
||
articolata e differenziata nei suoi vari gradi e ordinamenti, la Scuola introduce “i suoi studenti” alle
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||
conoscenze e ai valori ritenuti socialmente utili. È ben vero che le trasformazioni sociali precedono
|
||
sempre la capacità della Scuola di adattarsi e che questa rischia di risultare gioco forza sempre
|
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inadatta alle necessità del presente. Però, pur non essendoci mai stata scuola che non potesse
|
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sembrare “vecchia” o passibile di migliorie, questa ha raramente mancato di essere funzionale alla
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riproduzione di soggetti dediti alla produzione. Forme e contenuti della scuola hanno
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necessariamente interpretato il ruolo che il mercato del lavoro richiedeva, facendo con ciò una cosa
|
||
scontata, preparando cioè i più giovani a diventare adulti senza mettere in discussione lo stato delle
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||
cose, istituzione di una società che tende a riprodurre se stessa.
|
||
L’istituzione scolastica ha sempre rispettato la divisione in classi sociali, la divisione del lavoro, i
|
||
valori della disciplina, della dedizione e del rispetto dell’autorità. I casi, rari ma non inesistenti, in
|
||
cui ha saputo essere terreno di sperimentazione della trasmissione ed elaborazione del sapere al di
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fuori dei canoni ufficiali non hanno mai avuto alcuna possibilità di affermarsi anche quando
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sapevano dimostrarsi più efficaci o quanto meno più ricchi. Da questo punto di vista la scuola è stata
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sempre un terreno di scontro tra chi voleva conservare lo stato di cose presenti e chi voleva
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cambiarlo. E oggi? A che punto è questo scontro? Quale scuola abbiamo di fronte?
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Nel n. 1 della rivista “Gli Asini” Luigi Monti ipotizza una risposta:
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«La scuola non è ancora morta solo perché i principi in base ai quali vengono eretti poteri e
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istituzioni possono essere già scomparsi, ma le istituzioni e il potere non scompaiono se non vi sono
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costretti. Così quel che è morto, diceva Buber, può dominare ancora a lungo su quel che è vivo. Ma
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la scuola è già morta perché quotidianamente muoiono in essa il senso critico ed estetico, morale e il
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desiderio di rivolta. La scuola è morta perché le categorie con cui l’abbiamo pensata e continuiamo
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a pensarla sono saltate, e i modelli che descrivono la nostra idea di scuola non hanno più un
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orizzonte sociale che conferisca loro significato.»
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O ancora, nelle ultime tesi degli *Appunti per una riflessione collettiva su apparati educativi e
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sistema scolastico* del [gruppo Franti](https://franti.noblogs.org/):
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«**La scuola nella prospettiva della cultura neoliberista**
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17) Uno dei fenomeni più appariscenti delle strategie del potere e delle sue sperimentazioni è il
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passaggio dalla scuola della disciplina (caratteristica della scuola in epoca fordista) alla scuola della
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sorveglianza, del controllo, anche nel momento in cui la scuola perdeva la sua centralità come luogo
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della formazione professionale. L’approccio disciplinare è tendenzialmente valutativo e si dà ex-
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post, a cose fatte; l’approccio di controllo è processuale e dinamico e non te lo scrolli mai di dosso.
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18) La svolta neoliberista delle società capitalistiche ha le istituzioni educative come obiettivo
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centrale.
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È l’istruzione il campo sul quale un nuovo modello sociale si deve imporre: centralità dell’impresa,
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misurazione quantitativa, formazione di una nuova soggettività devono avere le istituzioni
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scolastiche come protagoniste.
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19) Un’altra ragione dell’importanza che fa dell’istituzione scolastica un perno dell’organizzazione
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della società è che, nella fase nella quale si afferma il capitalismo cognitivo e tendenzialmente la
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produzione immateriale diventa prevalente, l’apparato educativo si trasforma in un settore
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immediatamente produttivo.
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20) La svolta di questa nuova configurazione dell’istituzione scolastica avviene a livello europeo
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con la conferenza di Bologna del 1999, dove viene definito uno spazio continentale dell’istruzione
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con l’introduzione del sistema dei crediti come tentativo d’imporre la misurazione quantitativa del
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||
sapere e, nello stesso tempo, avviare processi di differenziazione nella formazione. In Italia, per
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quanto riguarda l’istruzione, l’adozione del modello neoliberale avviene, in modo organico, con la
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“scuola dell’autonomia”, che introduce un modo nuovo di organizzare i singoli istituti per
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rispondere alla crisi della scuola di massa e delle sue finalità. Muovendosi nella direzione della
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formazione di un soggetto flessibile, in sintonia con le esigenze del mercato e disponibile ad
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inserirsi nelle sue pieghe, questo modello garantiva una limitata ma significativa differenziazione e
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competizione tra gli istituti, che rivolgevano un’offerta formativa appetibile a studenti e famiglie,
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considerate sempre di più come clienti all’interno del mercato dell’istruzione.
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21) Al modello fordista dell’istruzione e ai suoi obiettivi (formare il lavoratore a vita e il cittadino
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integrato nello Stato) si sostituisce il modello neoliberista con la formazione del lavoratore precario
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(flessibile, sia nei tempi sia nelle mansioni, intermittente, enormemente ricattabile). Il lavoro si
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trasforma da “diritto costituzionale”, per stare alla definizione che lo Stato stesso ne dava, a dovere
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dell’individuo indebitato. Da qui, per un verso la precarizzazione del personale già in opera, per
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l’altro l’incertezza più assoluta, fino all’emergere del ruolo del “lavoro volontario”.
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22) In questo senso il merito diventa strumento fondamentale, all’interno dell’ideologia neoliberista,
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per formare il soggetto imprenditore di se stesso, in continua concorrenza con gli altri: la
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valorizzazione del “capitale umano”.
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23) Cambiano anche le forme d’integrazione: sostituire sempre di più all’insegnamento soggettivo,
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partecipato, una strumentazione anonima, standardizzata; generalizzare le forme della valutazione
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quantitativa, passare dal sapere al saper fare, dal pensiero all’informazione.
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24) Per ottenere questi risultati è fra l’altro necessaria la dissoluzione della figura dell’insegnante,
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della sua specificità, della sua autonomia culturale e la sua sostituzione da un lato con
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strumentazione tecnologica, dall’altro con la progressiva dequalificazione della sua professionalità
|
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(un po’ come il passaggio dal lavoratore professionale al lavoratore generico nella fabbrica fordista)
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unita a forme di crescente esternalizzazione-appalto di funzioni...»
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Sostenere che la scuola scompare anche dal terreno del conflitto e sopravvive a se stessa come per
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inerzia è un’affermazione drastica e radicale. Nello stesso tempo è pur vero che la scuola resta
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(ancora) uno degli ultimi luoghi con una organizzazione rigida dello spazio e del tempo, non avendo
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ancora ceduto del tutto alla parcellizzazione dei soggetti, dei luoghi, dei tempi e della
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organizzazione del lavoro e anche, non trascurabile, resta un luogo dove si maneggia la miscela
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esplosiva della conoscenza, seppur edulcorata e resa innocua dalle indicazioni ministeriali. Insomma
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anche se oggi non lo è, la scuola potrebbe forse tornare a essere un terreno di scontro, seppure
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diversamente da come fu negli anni Settanta.
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17Resta il fatto che, come che sia, il sapere si trasmette, si scambia, e così sarà sempre. Vi sono tante
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occasioni, metodiche, approcci diversi e la stessa condivisione della conoscenza è oggetto di studio
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e sperimentazione. Confrontarvisi è un’inevitabile necessità. Capire cosa non va nella scuola non è
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un modo di migliorarla, questa scuola va benissimo così com’è. Solo intervenendo sull’intero
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sistema delle relazioni sociali è possibile pensare a un luogo della trasmissione del sapere che sia
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realmente diverso. Ma per non prendersi troppo in giro è anche necessario avere una benché minima
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idea in che cosa questa differenza potrebbe consistere. Di qui viene l’importanza del lavoro sulla
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trasmissione del sapere.
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[PDF]({static}/pdfs/LOST_RFC_01.pdf)
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